This is an experiment. (A double experiment, as you will read in the endnote – no spoilers!) Contrary to the usual, this time I wanted to start with the images (created by me with StableDiffusion on the NightCafeStudio platform) and create the narrative to accompany them. Of course, almost immediately the two things became inseparable. Here is the result, my Christmas gift to you.
Attenzione: Tutte le immagini qui pubblicate sono mia proprietà intellettuale e sono pubblicate sotto licenza Creative Commons 4.0 CC BY-NC — in poche parole, significa che possono essere riprodotte liberamente citando l’autore e non possono essere usate per fini commerciali.
1
Vivevo in un quartiere povero. Giocavamo sempre nello spiazzo dello sfasciacarrozze locale, ignari dei pericoli della ruggine — eravamo bambini, pensavamo di essere immortali. Camminavamo tra le torri di metallo abbandonate, a volte arrancando su putrelle precarie appese a trenta metri di altezza. Una caduta avrebbe significato la morte.
Ma a noi non importava. L’unica cosa che contava davvero era giocare, giocare fino a quando non avevamo più un briciolo di forza — e poi abbandonarci sulle lamiere rese roventi dal sole.
2
Usavamo le auto arrugginite e sfasciate come castelli, fortini, nascondigli. Giocavamo e giocavamo finché non crollavamo esausti e senza fiato sui cumuli di rottami.
I nostri genitori erano severi. Avevano il terrore — abbastanza giustificato, devo ammettere — che potessimo farci male (e forse anche peggio).
Così, ogni volta che dovevamo tornare a casa dopo aver giocato — di solito per la cena — ci ispezionavamo a vicenda e spazzolavamo via con cura ogni minima traccia di ruggine.
Perché altrimenti saremmo stati in grossi guai.
Non c’erano metodi Montessori, dove vivevamo: essere nei guai significava essere picchiati. A volte pure con la cinghia.
Semplice.
3
Poi, un giorno, è caduta la Bomba.
L’esplosione fu tremenda. Feroce. E il calore… come il respiro di un drago.
Siamo fuggiti. Come lemming, ci siamo precipitati giù per le scale dei nostri palazzi. Ricordo che una volta mi sono girato, per un attimo, e ho visto il Fungo.
Siamo andati sottoterra. Nei garage dove i padri dei meno poveri tenevano le loro auto. Anche nelle cantine.
Noi non avevamo un garage, ma una cantina. A un certo punto ricordo che nella nostra cantina c’erano sette persone. Dormivamo uno sopra l’altro.
Ogni tanto qualcuno andava a cercare del cibo, roba in scatola e cose del genere.
Non sempre tornavano. A volte sparivano e non li vedevamo più.
Poi abbiamo iniziato a uscire anche noi. Il Grande Fungo non c’era più, ma il cielo era nero e polveroso — come se fosse fatto di neve, solo grigio scuro.
La vita era molto diversa ora.
Non so quanto tempo sia passato. Forse settimane. Forse mesi. Mio padre è morto per avvelenamento da radiazioni, e poco dopo anche mia madre.
Molti di noi sono morti per il fallout, giorni e settimane e persino mesi dopo la scomparsa del Fungo. Così mi sono trovato una nuova casa, fatta di rottami metallici, dove sono andato a vivere con il mio fratellino e un gruppo di bambini.
Non avevamo più molta voglia di giocare, ora che i rottami di ferro erano diventati la nostra casa.
Faceva schifo, sì, ma era… be’, era casa nostra. Cercavamo di non pensare più al passato. A tutto quello che avevamo perso.
In tutto quel tempo, nelle strade vicine non è passato nessuno.
Intendo dire proprio nessuno.
Meglio così, perché di tanto in tanto, in lontananza, si sentiva sparare.
Era una vita nuova, dura e pericolosa.
4
Passarono gli anni. Non ci accorgemmo di molto. Io e i miei amici imparammo a procurarci il cibo nonostante la tossicità dell’ambiente circostante. Persi la cognizione del tempo.
Un giorno, il mio fratellino morì. Così, senza un motivo apparente. È successo e basta.
Lo seppellimmo dietro il deposito, dove avevamo sempre messo le persone morte.
Ho scavato io la fossa. Era una mia responsabilità.
A quel punto eravamo rimasti in pochi nel deposito di rottami, sparsi qua e là nelle nostre baracche di lamiera.
Non ci parlavamo più molto — non c’era molto da dire. Ognuno di noi aveva la propria carcassa di auto come base, con pezzi aggiuntivi attaccati nel corso dei mesi: tettoie, lamiere ondulate, cose del genere.
C’erano alcuni ragazzi che, giuro, non sapevo nemmeno chi cazzo fossero.
Non avevo più nessun motivo per restare. Così un giorno, senza dire niente a nessuno, raccolsi le poche cose che avevo e partii.
Nessuno se ne accorse. Dopotutto, dal giorno dell’esplosione nessuno si accorgeva più di niente.
E, di fronte a un tramonto reso tossico dalle radiazioni, mi sono incamminato verso la città.
Big City.
Avevo ventidue anni.
O forse un po’ meno.
Non me lo ricordo.
5
Il viaggio è stato più lungo del previsto.
Spesso la strada era intasata da auto abbandonate, e allora dovevo scavalcare il guardrail e scendere nella boscaglia tossica che era cresciuta negli anni.
Mentre mettevo un piede davanti all’altro ricordavo il passato, ma era come ricordare un altro mondo, un’altra vita.
In macchina, con mio padre alla guida, impiegavamo più di un’ora per arrivare a Big City. Scherzavamo, ridevamo, facevamo giochi stupidi — tipo indovina a quale colore sto pensando e cose del genere — e nel frattempo ascoltavamo il rock sulla radio FM di papà.
Ho impiegato tre giorni e tre notti per raggiungere la Periferia.
Al tramonto trovavo un posto per dormire, di solito una casa vuota.
C’erano case vuote dappertutto, spesso con all’interno cadaveri rinsecchiti che sembravano gli scheletri finti di quando da bambino andavo alla Casa degli Spaventi delle giostre del quartiere.
Non me ne fregava niente. Mi importava solo che non puzzassero.
All’alba mi svegliavo e ricominciavo a camminare.
Durante il tragitto non ho incontrato nessuno.
Assolutamente nessuno.
6
Quando arrivai in città, non c’era nessuno in giro. Non un’anima per le strade, nessuno alle finestre, nessuno sui tetti. Gli edifici erano semidistrutti, fatiscenti, stritolati dall’edera e dai rampicanti.
E grigio. Tutto era grigio. L’aria era ancora appesantita dalla polvere degli edifici polverizzati dalla Bomba.
Camminai per le strade deserte per non so quanto tempo, forse per ore, poi a un certo punto mi stancai di vagare senza meta e decisi di andare in centro.
Così mi sono diretto verso quello che mi sembrava di ricordare fosse il centro della città. Non era difficile: dovevo solo seguire la distruzione. Più gli edifici erano in rovina, più mi avvicinavo al luogo in cui era sbocciato il Grande Fungo.
Il Duomo non c’era più. Non credevo fosse possibile, ma la cosa mi riempì di una strana tristezza. Era come se con il Duomo fosse scomparsa un’intera parte della mia vita.
Mi vennero gli occhi lucidi. Non tanto per la Bomba, quanto per il Duomo di Milano.
Che stupido che sono. Non so quanto tempo fa avevo visto un fuoco-cenere-fungo alto come una montagna che bruciava nel cielo, e ora mi rattristavo per una chiesa che aveva smesso di esistere.
Eppure era così che mi sentivo.
Con gli occhi che lacrimavano come una femminuccia, cercai un riparo per la notte.
L’ho trovato in quello che sembrava un vecchio parcheggio abbandonato.
Quella notte ho faticato a prendere sonno. C’erano animali là fuori, animali che ululavano tra i grattacieli.
7
Dopo qualche giorno, mi resi conto che non potevo rimanere in centro. Il punto d’impatto della Bomba era troppo vicino e i miei malconci contatori Geiger stavano impazzendo.
Il loro odioso crr-crrr-crrrr mi dava sui nervi.
Non volevo morire come mio fratello. Come i miei amici.
Così mi allontanai verso la periferia. Alla fine trovai un posto dove stare: un piccolo appartamento al decimo piano di una struttura fatiscente, ma che possedeva una specie di balcone-ponte che lo collegava all’edificio di fronte.
Ci crescevano dei pomodori, in grossi vasi rettangolari. E poi arance, piccole e stentate. E fichi d’India.
Rinforzai la porta, costruii una barriera di scarti e pallet di legno dall’altra parte di quello strano ponte sospeso o quello che era, e ci buttai davanti pure un paio di carrelli del supermercato. Era un buon posto dove stare. Avevo una visione completa delle strade sottostanti.
Era quasi perfetto: potevo controllare la strada, ma, cosa più importante, c’era quel cazzo di orticello rachitico che qualcuno aveva piantato su quel balcone-ponte prima di morire o di andarsene per sempre.
E, la prima sera, ho notato con stupore che la nebbia era tornata a Milano.
La nebbia, santo cielo.
Non lo vedevo più da quando ero bambino.
8
Ho imparato a vivere nella Grande Città. Come procurarmi il cibo. Come trovare un riparo, dove trovare ciò di cui avevo bisogno.
Per mesi non incontrai nessuno. Non che me ne fregasse qualcosa: ero abituato al silenzio dai lontani giorni dello sfasciacarrozze, non faceva una grande differenza.
La cosa che mi piaceva fare più di ogni altra, quando non dovevo preoccuparmi della sopravvivenza, era trovare i vecchi monumenti storici di Milano e osservarli. Esplorare le rovine. Cercando di capire quanto e come fossero stati modificati dall’onda d’urto.
Come, per esempio, l’Arco della Pace.
9
O il Bosco Verticale, il pluripremiato grattacielo nel quartiere di City Life, dove un tempo — prima della Bomba — i milanesi ricchissimi, i miliardari, le star dello sport e dello spettacolo, vivevano la loro vita lussuosa, lassù in alto rispetto ai poveri disgraziati che si aggiravano per le strade sottostanti come minuscole formiche insignificanti.
Ora era una Giungla Verticale, altro che Bosco. Ci trovai delle persone, degli abusivi. Squatters, li chiamavano una volta. Ma non mi lasciavano avvicinare. Una volta mi hanno persino sparato addosso da uno dei piani alti, mentre attraversavo la fontana verdastra, radioattiva e puzzolente di Piazza Gae Aulenti.
Non fontaneggiava più, adesso, la stronza. Tutto stagnante, marcio e immobile come la morte.
Che cazzo, pensai, e non ci tornai più.
Addio, influencer miliardari, e grazie per tutto il pesce.
Ha-ha.
10
E così, alla fine, avevo il mio piccolo appartamento, i miei pomodori e le mie arance grandi come mandarini. Due volte alla settimana scendevo al livello della strada per recuperare ciò che mi serviva: batterie, torce elettriche, cibo in scatola, cherosene e roba del genere.
Leggevo molto. Avevo trovato una vecchia biblioteca scolastica e la saccheggiavo continuamente. Stephen King, Joe Lansdale, William Gibson, Chuck Palahniuk, Neal Stephenson, Arthur Clarke, Cixin Liu: insomma, tutti i grandi classici. Divoravo i loro libri uno dopo l’altro mentre mi ingozzavo di fagioli direttamente dalle lattine, fermandomi solo quando ero a corto di kero per le lanterne Coleman.
La vita era piuttosto noiosa. Era diventata una specie di routine. In un negozio trovai un binocolo e me lo portai a casa. Era uno Zeiss, aveva ancora attaccato il cartellino del prezzo: duemila euro. Cazzo, una volta, prima della Bomba, con quei soldi la mia famiglia ci campava un anno intero. Ormai i soldi non valevano più niente.
Cominciai a guardare gli edifici vuoti intorno al mio.
Che divertimento, eh?
Poi, un giorno, è successo qualcosa.
Lo ricordo vividamente. Dal mio balcone potevo vederne un altro, molto simile al mio, giù in fondo, perso nella nebbia perenne che infestava la città. Era mattina presto, il bagliore grigio chiaro non era ancora troppo chiaro, quindi dovevano essere circa le sei e mezza, o forse le sette — non più tardi. Stavo giocherellando con il binocolo e all’improvviso vidi il tizio.
C’era qualcuno che si muoveva, laggiù. Non sapendo bene cosa fare, lo salutai con la mano. O forse era una lei. Per quanto ne sapevo, poteva essere una lontra. C’era troppa foschia per poterci vedere bene.
Ma lui/lei ricambiò il saluto. E cominciammo a comunicare così, alzando le mani nella nebbia grigia alle prime luci dell’alba.
Non avevo mai avuto problemi a stare da solo, ma questo era meglio.
Molto meglio.
11
Una mattina mi sono svegliato e avevo la febbre. Non avevo un termometro, ma non ne avevo bisogno per saperlo: mi sentivo a pezzi.
Nel mio piccolo rifugio mancava qualcosa: le medicine. Non avevo nulla, nemmeno della Tachipirina. Cercai di ricordare dove fosse l’ospedale universitario.
Quando finalmente mi tornò in mente, sono sceso e ci sono andato, camminando come una bambola di pezza. Diverse volte lungo la strada mi sono dovuto fermare per appoggiarmi al muro di qualche edificio, tanto mi girava la testa. Mi sentivo davvero di merda.
Dopo non so quanto tempo, arrivai davanti all’edificio: era enorme e completamente in rovina, con piante che crescevano ovunque.
Guardai l’enorme nicchia a forma di C al centro del palazzo, tipo al ventesimo piano o giù di lì.
Merda, non c’era una sola finestra ancora intatta. “Non troverò nulla”, dissi con la voce che mi raschiava in gola. Invece mi sbagliavo: la farmacia del quindicesimo piano era piena.
Gli ascensori erano ovviamente fuori servizio. Sono salito ansimando come un vecchio di merda, arrancando aggrappato al corrimano delle scale. Non mi aspettavo di trovare nulla, ma poi ho capito: erano quasi tutti morti, non era rimasta molta gente in giro per saccheggiare le provviste.
Ero stato fortunato.
Già che c’ero, ho preso tutto quello che potevo: sciroppo per la tosse, antibiotici, tipo dieci scatole di aspirina, tachipirina, persino tranquillanti — non si poteva mai sapere.
Ho riempito lo zaino così tanto che ho fatto fatica a chiuderlo.
Quando sono tornato a casa, ho preso tre aspirine e mi sono infilato nel sacco a pelo come un verme febbricitante.
Quella notte ho sognato il Grande Fungo.
12
Un giorno, mentre ero fuori a fare scorta di scatolette di legumi e batterie, la incontrai per strada. Era una ragazza sui vent’anni. Snella, con le gambe nelle DocMartens, la minigonna in tartan e tutto il resto.
Era fredda in un modo particolare. I capelli lunghi e spettinati, scuri ma con alcune ciocche viola, le ricadevano disordinatamente sulle spalle. Lo stesso colore rosso-porpora era presente sulle sue labbra, come se se le fosse spalmate di succo di lampone.
Si fermò a una ventina di metri di distanza, come se non avesse alcuna voglia di avvicinarsi. E probabilmente era così.
Con un’alzata di spalle, fui io ad avvicinarmi. Lei non indietreggiò. Stava guardando il cielo grigio sopra gli edifici mentre fumava una sigaretta elettronica, sbuffando enormi boccate di vapore verso l’alto.
“Ciao”, ho detto. “Sono Crash.”
“Che nome stupido”, ha risposto lei.
Ho dato un calcio a una lattina. “Perché, qual è il tuo?”
“Chiamami come ti pare. Non mi interessa. Puoi chiamarmi Alga. O Muletto, se preferisci.”
A quel punto mi sono ricordato dei dubbi delle settimane precedenti e sono scoppiato a ridere. Il suono della mia risata era strano. Avevo dimenticato com’era — ridere, intendo.
Era inquietante, così ho smesso subito.
Ma le ho detto comunque: “Ti chiamerò Lontra.”
Lei scrollò le spalle. “Per me va bene.”
Senza dire altro, siamo andati in giro a cercare cose utili.
13
Abbiamo deciso di andare a vivere insieme senza nemmeno parlarne: era semplicemente la cosa più intelligente da fare. Protezione reciproca e tutto il resto, insomma.
I nostri appartamenti erano troppo piccoli, così siamo andati in giro a cercarne uno più grande. Lontra non ha detto nulla per tutto il giorno — intendo dire nemmeno una parola — ma si è illuminata quando ha visto un edificio con balconi costruiti come piccole serre.
“Lassù possiamo coltivare qualsiasi cosa”, ha detto indicando il punto.
Aveva ragione.
Dopo aver fatto il giro dell’isolato per controllare che non ci fossero pericoli nascosti, ci siamo avvicinati al portone d’ingresso.
Era aperto. Non era un buon segno. Lontra si strinse nelle spalle ed entrò senza nemmeno voltarsi.
Imprecando a mezza voce, la seguii. Alla fine non c’era nulla da temere: l’edificio era deserto — come tutta la città, del resto.
Siamo saliti per venti piani, controllandoli tutti. Non c’era nessuno. Al ventesimo, finalmente, abbiamo trovato una porta con una serratura funzionante.
Lontra l’ha scassinata in sette secondi.
All’interno, l’appartamento era enorme. E all’esterno c’era una piccola serra.
Ci siamo trasferiti la sera stessa, con le valigie e tutto il resto.
14
Sull’altro lato c’erano altri balconi — altre potenziali serre — ma non potevamo usarli. Eravamo di fronte al Bosco Verticale, ormai ridotto a una giungla intricata piena di vetri rotti.
Ogni volta che cercavamo di andarci, dai piani superiori di quello stupido grattacielo qualcuno ci sparava addosso.
“Dobbiamo procurarci una specie di fucile”, ha detto Lontra.
Aveva ragione. Col passare del tempo, avevo capito che Lontra aveva sempre ragione, anche se era più giovane di me. Per una sorta di tacito accordo, era lei a comandare tra noi.
Così qualche giorno dopo, un pomeriggio, ho preso una delle borse e sono andato a Lambrate — un quartiere che conoscevo nella parte est di Big City dove sapevo che c’era un negozio di caccia e pesca.
Lì ho trovato un fucile da caccia e tipo un migliaio di cartucce.
L’ho portato a casa, sentendomi molto orgoglioso di me stesso.
Accidenti, Lontra ha persino fatto un fischio di ammirazione quando ha visto cosa avevo recuperato.
Quella sera abbiamo iniziato a rispondere al fuoco.
Il giorno dopo abbiamo iniziato a coltivare ortaggi anche sugli altri balconi.
Forte, eh?
15
Poi, un giorno, senza preavviso, ci siamo svegliati e tutto era diverso.
All’inizio non riuscivamo a capire cosa fosse.
Poi il volto di Lontra si illuminò come una lampadina. Sorrise. Doveva essere la seconda o la terza volta che la vedevo sorridere.
“Il sole, Crash! C’è il sole fuori!”
La guardai incredulo.
Poi mi resi conto.
Oh mio Dio… era vero! Non vedevo il sole da quando avevo lasciato lo sfasciacarrozze.
Lontra era eccitata all’inverosimile. Era passato così tanto tempo dall’ultimo raggio di sole a Milano che non ricordavamo più com’era non avere quel grigio mantello di polvere sopra la testa.
Siamo usciti sul balcone. Il palazzo di fronte era illuminato… di una luce che all’inizio non riuscii a riconoscere.
Poi però sì. Tutto mi tornò in mente, come se non se fossero passati anni, ma solo qualche minuto. Era il sole. Il sole che si rifletteva sul cemento del condominio deserto.
Senza nemmeno accorgercene, stavamo ridendo come due ragazzini.
La vita sembrava di nuovo degna di essere vissuta.
16
Con il ritorno del sole, le persone cominciarono a uscire dai loro nascondigli. Non erano molti: nella prima settimana, io e Lontra ne incontrammo non più di cinque.
Ma l’atmosfera era diversa. Un giorno, una donna ci salutò dall’altra parte della strada. Eravamo così sorpresi che non abbiamo avuto il tempo di ricambiare il saluto: la tipa aveva già girato l’angolo.
Anche uscire di casa era diverso. Non si usciva più per recuperare qualcosa… a volte si usciva così, per il gusto di uscire. Per camminare. Per girare per le strade di Milano e vedere i marciapiedi scintillare sotto la luce giallastra di quel sole ancora un po’ strano.
E poi una volta, svoltando l’angolo di una strada deserta, ci siamo fermati di colpo.
Davanti a noi c’era un muletto giallo e arrugginito.
“Lo voglio”, disse subito Lontra.
Risi, ripensando alla nostra prima conversazione. “Puoi chiamarmi anche Muletto, se vuoi”, mi aveva detto. O qualcosa del genere.
Comunque, mi sono arrampicato su quella cosa. Le chiavi erano nel quadro. Ho acceso il motore. È partito al primo colpo, come se non fosse passato un sacco di tempo dall’ultima volta che era stato messo in moto.
Felici, guidammo quella cosa fino al nostro palazzo, parcheggiandola davanti all’ingresso.
Quella notte, Lontra spruzzò la fiancata del muletto con una bomboletta di vernice nera.
“Proprietà di Lontra e Crash. Rubatelo e vi uccidiamo”, ci ha scritto sopra.
Ho sentito uno strano calore in mezzo al petto nel leggere i nostri nomi scritti uno accanto all’altro.
17
E così il tempo passò.
Un anno, poi un altro.
Non ci siamo mai raccontati le nostre storie passate e non abbiamo mai definito il nostro rapporto, ma io e Lontra siamo sempre rimasti insieme.
Né io né lei ridevamo molto, ma eravamo fatti così.
Mano nella mano, passeggiavamo per le strade di Milano. L’inquinamento lasciato dal Grande Fungo diminuiva settimana dopo settimana.
E, gente, la città era nostra.
Ma nostra davvero.
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Below, without repeating pictures so as not to add too much weight to the page, and again for the benefit of all the wonderful staff and all my “colleagues” on NightCafe, you will find — if you want to read it — the original English version. I emphasize original.
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English Version (Original Version)
From Rust to Concrete — A Visual Short Story by Stefano Massaron
Chapter 1 — [Image 1 — Cover image]
I used to live in a poor neighborhood. We always played in the local scrapyard, oblivious to the dangers of rust — we were kids, we thought we were immortal. We walked among the abandoned metal towers, sometimes inching on precarious I-beams perched thirty feet in the air. One fall would’ve meant death.
But we didn’t care. The only thing that really mattered was playing, playing until we had not an ounce of strength left, and then abandoning ourselves on the metal sheets made hot by the sun.
[image 2]
Chapter 2
We used the rusted, abandoned cars like castles, forts, hiding places. We played and played until we dropped breathless on the junk piles.
Our parents were harsh. They had the terror — quite justified, I have to admit — that we could injure ourselves (and maybe worse).
So, anytime we had to go back home after playing, usually for dinner, we inspected each other and brushed carefully away every tiny trace of rust.
Because otherwise we would’ve been in big, big trouble.
There were no Montessori methods where we lived: being in trouble meant a beating.
Simple as that.
Chapter 3
Then, one day, the bomb exploded.
The blast was tremendous. Ferocious. And the heat… like the breath of a dragon.
We fled. Like lemmings, down the stairs of our condos, and I remember I turned around once, briefly, and saw the Mushroom.
We went underground. Into the garages where the dads of the less poor kept their cars. Even in the cellars.
We didn’t have a garage, but we had a cellar. At one point, I remember our cellar had seven people in it. We slept on top of each other.
Every once in a while, somebody would go and look for food, canned stuff, stuff like that.
They didn’t always come back. Sometimes they would disappear, and we would never see them again.
Then we started going out ourselves. The Big Mushroom was gone, but the sky was black and dusty, like it was made of snow, only dark gray.
Life was very different now.
[image 3]
I don’t know how much time passed. Weeks, maybe. Maybe months. My father died from radiation poisoning, soon followed by my mother.
Many of us died for the fallout, days and weeks and even months after the Mushroom vanished. So I found myself a new home, made of scrap metal, where I lived with my little brother and a bunch of kids.
We didn’t have much desire to play anymore, now that the scrap iron had become our home.
It sucked, yes, but it was… well, it was our home. We tried not to think anymore about the past. About what we had lost.
In all that time, no one passed in the nearby streets. I mean no one at all.
That’s just as well, because every now and then, in the distance, we heard shooting.
It was a new, harsh, dangerous life.
Chapter 4
Years went by. We didn’t notice much. My friends and I learned how to get food despite the toxicity of our surroundings. I lost track of time.
One day, my little brother died. Just like that, for no apparent reason. It happened.
We buried him behind the depot, where we had always put people who died.
I dug the grave. It was my responsibility.
By then there were only a few of us left in the scrap yard, scattered here and there in our houses made of sheet metal.
We didn’t talk to each other much anymore, there wasn’t much to say. We each had our car carcass as a base with extra pieces added over the months: canopies, corrugated sheets, stuff like that.
There were some guys who, I swear, I didn’t even know who the fuck they were.
I no longer had any reason to stay. So one day, without saying anything to anyone, I gathered the few things I had and set out.
No one noticed. After all, since the day of the explosion no one noticed anything anymore.
[image 4]
And, in front of a sunset made toxic by radiation, I walked toward the city.
The Big City.
I was twenty-two.
Or maybe a bit less.
Dunno.
Chapter 5
The journey was longer than I had expected.
Often the road was clogged with abandoned cars, so I had to climb over the guardrail and down into the toxic brush that had grown over the years.
[image 5]
As I put one foot in front of the other, I remembered, but it was like remembering another world, another life.
In the car, with my father driving, it took us more than an hour to get to Big City. We would joke, laughing, playing silly games — like guess what color I’m thinking and stuff like that — and meanwhile we would listen to rock on dad’s FM radio.
Now it took me three days and three nights to reach the Outskirts.
At sunset I would find a place to sleep — usually an empty house.
There were empty houses everywhere, often with dried-up corpses inside that looked like the fake skeletons from when I went to the House of Scares at the amusement park as a kid.
I didn’t give a damn. I only cared that they didn’t smell.
And at dawn I would wake up and start walking again.
On the way I didn’t meet anyone.
Absolutely no one at all.
Chapter 6
When I arrived in the city, there was no one around. Not a soul on the streets, no one at the windows, no one on the rooftops. The buildings were half-destroyed, crumbling, mangled by ivy and creepers.
And gray. Everything was gray. The air was still obnoxious with the dust from the buildings pulverized by the Bomb.
[image 6]
I walked the deserted streets for I don’t know how long, maybe for hours, then at some point I got tired of wandering around aimlessly and decided to go downtown.
So I headed toward what I seemed to remember was the city center. It was not difficult: I just had to follow the destruction. The more the buildings were in ruins, the closer I was to where the Great Mushroom had blossomed.
The Duomo was no longer there. I didn’t think it was possible, but it filled me with a strange sadness. It was as if with the Duomo a whole part of my life had disappeared.
Not so much because of the Bomb, but because of the Duomo of Milan.
What a fool I am. I don’t know how fucking long ago I had seen a fire-ashes-mushroom tall as a mountain burning in the sky, and now I was getting sad for a church that had ceased to be there.
Yet that was how I felt.
With eyes watering like a pussy, I looked for shelter for the night.
I found it in what looked like an old abandoned parking garage.
I struggled to get to sleep that night. There were animals out there, howling among the skyscrapers.
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Chapter 7
After a few days, I realized that I could not stay downtown. The Bomb’s point of impact was too close, and my battered Geiger counters were going crazy.
Their obnoxious crr-crrr-crrrr grated my nerves.
I didn’t want to die like my brother. Like my friends.
So I walked away — toward the suburbs. Eventually I found a place to stay: a small apartment on the tenth floor of a dilapidated structure, but one that possessed a bridge-balcony connecting it to the building in front.
Tomatoes were growing there. Oranges, small and stunted. And prickly pears. I reinforced the door, I put a barrier of scraps and wooden pellets on the other side of that strange suspended bridge-deck-whatever. It was a good place to be. I had a full view of the streets below.
It was quasi-perfect: I was able to control the road, but, more important, there was that little fucking vegetable garden that someone had planted on that balcony-deck before dying or leaving for good.
And, on the first night, I noticed with amazement that the fog had returned to Milan, Italy.
I had not seen it since I was a child.
Chapter 8
I learned to live in the Big City. How to get food. How to take shelter, where to find what I needed.
For months I met no one. Not that I gave a damn: I was used to silence from the distant days of the junkyard, it didn’t make such a big difference.
[image 8]
The thing I liked to do more than anything else, when I didn’t have to worry about survival, was to find the old historical monuments of Milan and observe them. Exploring the ruins. Trying to understand how much and how they had been changed by the blast wave.
Like, for example, the Arco della Pace.
Chapter 9
Or the Bosco Verticale, the award-winning skyscraper in the City Life district, where once — before the Bomb — the very rich Milanese, the billionaires, the sports and entertainment stars, lived their luxurious lives, high above the poor bastards that busied the streets below like tiny insignificant ants.
[image 9]
Now it was a Vertical Jungle. I found people there, squatters. But they wouldn’t let me approach. Once I was even shot at from one of the high floors, while I was crossing the greenish, radioactive, stinky water fountain in Piazza Gae Aulenti.
Not fountaining anymore, the sucker. Everything stagnant, rotten and still as death.
What the fuck, I thought, and never went back there anymore.
So long, billionaire influencers, and thanks for all the fish.
Ha-ha.
Chapter 10
And so, in the end, I had my little apartment, my tomatoes and my oranges. Twice a week I went down to street level to retrieve what I needed: batteries, flashlights, canned food, kerosene — stuff like that.
I used to read a lot. I had found an old school library, and I ransacked it constantly. Stephen King, Joe Lansdale, William Gibson, Chuck Palahniuk, Neal Stephenson, Arthur Clarke, Cixin Liu — you know, all the classics. I would devour their books one after another while gorging on beans straight from the cans, stopping only when I was short of kero for the Colemans.
[image 10]
Life was rather dull; it had become a kind of routine. I found a pair of binoculars in a store and took them home. I began to look at the empty buildings around mine.
What fun, huh?
Then, one day, something happened.
I remember it vividly. From my balcony-deck, I could see another one, very similar to mine, down down away, lost in the perpetual fog that haunted the city. It was early morning, the light-gray glow was still not too light-gray, so it must have been like six-thirty — or maybe seven o’clock to the max. I was dicking around with my binoculars, and suddenly I saw the guy.
There was someone moving over there. Not really knowing what to do, I waved to him. Or maybe it was a her. For all I knew, it could have been an otter. It was too hazy to see well.
But he/she returned the greeting. And we began to communicate like this, raising our hands in the gray fog at the first lights of damn-dawn.
I had never had a problem being alone, but this was better.
Much better.
Chapter 11
One morning I woke up and had a fever. I didn’t have a thermometer, but it’s not like I needed one to know: I felt like a wreck.
There was something missing in my little shelter: medication. I had nothing, not even some Tylenol. I tried to remember where the University Hospital was.
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When it finally came back to me, I got out and went there, walking like a rag doll. Several times along the way I had to stop to lean against the wall of some building, so much my head was spinning. I felt really shitty.
After I don’t know how long, I arrived in front of the building: it was huge — and completely in ruins, with plants growing everywhere.
I looked up at the huge C-shaped recess in the middle of the building, like on the 20th floor or so.
Shit, there was not a single window that was still intact.”I won’t find anything,” I thought. But I was wrong: the pharmacy on the 15th floor was full.
The elevators were obviously out of order. I got up there panting like a shitty old man, trudging along holding on to the handrail of the stairs. I didn’t expect to find anything, but then I realized: almost everyone was dead, there weren’t many people around to loot the supplies.
Lucky me.
While I was at it, I took everything I could: cough syrup, antibiotics, like ten boxes of aspirin, Tylenol, even tranquilizers — go figure.
I filled my backpack so much that I struggled to close it.. When I got home, I took three aspirins and crawled into my sleeping bag like a feverish worm.
That night I dreamed of the Great Mushroom.
Chapter 12 — [image 12]
One day, while I was out picking up cans of legumes and batteries, I met her on the street. She was a young woman in her early twenties. Slender, legs into DocMartens, tartan miniskirt and all.
She was cool in a peculiar sort of way. Long, disheveled hair, dark but with purple stripes, fell messily over her shoulders. The same purplish-red color was on her lips, kind of like she had smeared them with raspberry juice.
She stood about twenty meters away, as if she had no desire to get any closer. And that was probably true.
With a shrug, it was I who moved closer. She did not flinch. She was looking at the gray sky above the buildings while smoking an electronic cigarette, huffing huge puffs of vapor upward.
“Hello”, I said. “I’m Crash.”
“What a stupid name”, she replied.
I kicked a can. “Why, what’s yours?”
“Call me whatever you want. I don’t care. You can call me Seaweed. Or Forklift, if you’d rather.”
Then I remembered my doubts of the previous weeks and burst out laughing. The sound of my laughter was strange. I had forgotten what it was like — to laugh, I mean. It was eerie, so I stopped right away.
But I told her anyway, “I’ll call you Otter.”
She shrugged. “That’s okay with me.”
Without another word, we went around looking for useful stuff.
Chapter 13
We decided to move in together without even talking about it: it was simply the smartest thing to do. Mutual protection and all that, you know.
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Our apartments were too small, so we went around looking for a bigger one. Otter said nothing all day — I mean not a single word — but she brightened up when she saw a building with balconies built like small greenhouses.
“We can grow anything up there”, she said pointing.
She was right.
After walking around the block to check for hidden dangers, we approached the building’s front door.
It was open. Not a great sign. She shrugged and entered without even turning around.
Cursing half-heartedly, I went after her. In the end, there was nothing to be afraid of: the building was deserted — like the whole city, after all.
We went up twenty floors, checking them all. There was no one there. On the twentieth, we finally found a door with a lock that worked.
Otter picked it in seven seconds.
Inside, the apartment was huge. And outside there was really a small greenhouse.
We moved in that same night, bags and all.
Chapter 14
There were other balconies on the other side — other potential greenhouses — but we could not use them. We were facing the Bosco Verticale, now reduced to a tangled thicket full of broken glass.
Every time we tried to go there, from the upper floors of that stupid skyscraper someone would shoot at us.
“We have to get a rifle of sorts”, Otter said.
She was right. As time went on, I had realized that Otter was always right, even though she was younger than me. By some sort of unspoken agreement, she was the boss between us.
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So a few days later, one afternoon I took one of the bags and went to Lambrate — a neighborhood I knew on the east side of Big City — where I knew there used to be a hunting and fishing store.
There I found a shotgun and like a thousand cartridges.
I took it home, feeling very proud of myself.
Damn, Otter even whistled softly when she saw what I had brought home.
That evening we started to return fire.
The next day, we started growing vegetables on the other side balconies as well.
Cool, huh?
Chapter 15 — [image 15]
Then, one day, without warning, we woke up and everything was different.
At first we couldn’t figure out what it was.
Then Otter’s face lit up like a lamp and she smiled. It must have been the second or third time I had seen her smile.
“The sun, Crash! There’s the sun outside!”
Oh my God… it was true! I hadn’t seen the sun since I had left the junkyard.
Otter was excited to high heaven. It had been so long since the last ray of sunshine in Milan that we could no longer remember what it was like not to have that gray cloak of dust above our heads.
We went out to the balcony. Without even knowing it, we were laughing like two little kids.
Life seemed worth living again.
Chapter 16
With the return of the sun, people began to come out of their hiding places. There were not many: in the first week, Otter and I met no more than five.
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But the atmosphere was different. One day, a woman greeted us from across the street. We were so surprised that we did not have time to wave back — she had already turned the corner.
Even leaving the house was different. It was no longer going out to retrieve something… sometimes it was going out for the sake of going out. For walking. For wandering around the streets of Milan and seeing the sidewalks twinkle under the yellowish light of that still somewhat strange sun.
And then once, turning a corner of a deserted street, we stopped suddenly.
In front of us was a yellow, rusty forklift.
“I want it”, Otter said immediately.
I laughed, thinking back to our very first conversation. “You can call me even Forklift, if you like”, she had said. Or something like that.
Anyway, I climbed up that thing. The keys were in the ignition. I turned on the engine. It started at the first strike, as if it hadn’t been a shitload of time since it was last fired up..
Happy, we drove it all the way down to our building, parking it in front of the entrance.
That night, Otter sprayed its flank with black paint.
“Property of Otter and Crash. Steal it and we’ll kill ya”, she wrote on it.
I felt warm reading our names written next to each other.
Chapter 17
And so time passed.
One year, then another.
We never told each other our past stories, and we never defined our relationship, but Otter and I always stayed together.
Neither Otter nor I laughed much, but that was the way we were.
Hand in hand, we walked around the streets of Milan. The pollution left by the Big Mushroom decreased week by week.
And, folks, the city was ours.
For real.
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Grazie a tutti per aver letto, e Buon Natale.
Thanks to all for reading, and Merry Christmas.
— SM [or DC — Doublecrash — on NightCafe :-)]
Bravo!